La strumentalizzazione politica dei musulmani in Italia è emersa chiaramente con il recente provvedimento della sindaca di Monfalcone (Gorizia), Anna Cisint, esteso a una seconda moschea e a un terzo luogo di culto all’aperto. Questo provvedimento ha innescato un braccio di ferro con risonanza nazionale a partire dalla fine dello scorso anno. Anna Cisint aveva disposto le chiusure nel contesto di un attacco continuo all’Islam, scatenando un putiferio. Le comunità islamiche non avevano potuto pregare durante il mese sacro del Ramadan, nonostante un pronunciamento provvisorio del Consiglio di Stato a favore della libertà di culto.
Ora i giudici del Tar hanno dato ragione al centro culturale sul nodo cruciale: il cambio di destinazione d’uso dei locali adibiti a moschea. Secondo la sentenza, “La previsione regionale richiede – per l’attivazione del potere repressivo comunale – la dimostrazione che la nuova destinazione d’uso sia vietata dallo strumento urbanistico oppure che essa incida sugli standard in tema di gestione dei rifiuti, viabilità o sicurezza, mentre non è sufficiente la pura e semplice constatazione della formale diversità tra l’uso indicato nel titolo e quello effettivamente esercitato, né che la variazione abbia comportato il passaggio tra categorie funzionali diverse”.
Il Comune guidato da Cisint avrebbe dovuto provare, e non lo ha fatto, che vi fosse stata una “variazione essenziale che incida sull’ordinato e armonioso uso del territorio”, oppure che “influisca effettivamente sul fabbisogno di dotazioni territoriali, di infrastrutture, servizi, attrezzature, spazi pubblici o di uso pubblico e di ogni altra opera di urbanizzazione e per la sostenibilità ambientale, paesaggistica, socioeconomica e territoriale”. Secondo il Tar, l’amministrazione non ha nemmeno dimostrato che vi fosse una variazione essenziale d’uso. Anzi, i giudici hanno notato che lo strumento urbanistico ammetteva l’uso dell’immobile per “servizi e attrezzature collettive” tra cui “l’uso per il culto” indicato dai centri culturali e di preghiera.
Inoltre, i giudici hanno sottolineato che potrebbe essere incostituzionale relegare la possibilità di aprire centri di preghiera solo a determinate aree del territorio, come pretendeva l’ordinanza comunale. Il secondo errore del Comune è stato dato dall’istruttoria “lacunosa”, ovvero dalla spiegazione “generica” e insufficiente dell’aumento del carico urbanistico che le moschee avrebbero determinato. L’ordinanza di chiusura, infatti, dava per scontato che adibire i locali a centro religioso avrebbe determinato una maggiore esigenza di servizi e attrezzature pubbliche, senza però dimostrarlo.
“Siamo soddisfatti soprattutto perché il Tar ha detto che noi non viviamo nell’illegalità, non abbiamo infranto la legge. La sindaca Cisint ci ha accusato di aver fatto spendere soldi del Comune per le cause, adesso i giudici confermano che abbiamo fatto bene a chiedere la tutela dei nostri diritti”, ha commentato in conferenza stampa Bou Konaté, portavoce della comunità islamica.
Redazione